VECCHI Enrico

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[…] [Sono stato alloggiato in una baracca], e qui eravamo due per ogni posto letto, talvolta tre. [Il cibo distribuito consisteva in una] una tazza di tiglio al mattino, un litro di acqua e rape a mezzogiorno alla cava, un pezzo di strano pane con un pezzettino di margarina o una fetta di strano salame. [Venivano effettuati due appelli al giorno]: uno al mattino e uno alla sera. [L’orario di lavoro era di] dodici ore al giorno. Venivano fatte delle disinfezioni.

Si creavano dei] posti liberi: molti soccombevano. I kapo erano dei Triangoli verdi. Sono stato ricoverato in infermeria per lo schiacciamento di un piede. [L’infermeria era organizzata] in diverse baracche: chirurgia, medicina, incurabili ecc. [I ricoverati venivano seguiti dai] deportati, forse medici. Con il sistema […] delle disinfezioni [venivano fatte] delle selezioni tra i ricoverati. Le malattie più frequenti erano i traumi, dissenteria, ma soprattutto sfinimento.

[Le punizioni più frequenti] per le minime infrazioni [prevedevano] venticinque bastonate sulle natiche, causa spesso di morte. Per mancanze più gravi [era previsto] l’annegamento nei lavatoi. Era una continua crudeltà fisica e psicologica; eravamo schiavi, con un tempo di sopravvivenza calcolata in tre mesi. [Dopo la liberazione] sono stato ricoverato nel 131° Evacuation Hospital americano.

Prima dei rientro in Italia sono passati ancora due mesi. [Ciò che mi ha sostenuto durante tutta questa esperienza è stata la] speranza. E la fortuna o il destino, perché quando non è ora non si muore. [Anche] l’aiuto del prof. Aldo Carpi nell’infermeria. Mi pare incredibile di aver potuto superare una esperienza del genere, e che mente umana abbia potuto immaginare e realizzare una cosa simile. Dopo vent’anni, in un pellegrinaggio, un deportato francese su un libretto di suoi schizzi della vita del campo, mi ha scritto queste parole : “Jamas plus ça”. Incredibile, assurdo dice o meglio, scrive Primo Levi in una sua prefazione a “Se questo è un uomo”.

A molti, individui o popoli, può accadere più o meno inconsapevolmente, di ritenere che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa di un maggiore sillogismo, allora al termine della catena sta il lager […]”.

Fonte: Archivio Storico dell’ANED di Brescia, B. 9, fasc. 114 (“Elenchi dei deportati”), ad nomen.

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