RINALDINI Giacomina

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“[…] Quando io arrivai nel lager, le donne stavano in cucina a pelare patate e rape, mentre prima erano mandate, insieme agli uomini, allo scavo di una galleria che doveva ospitare le istallazioni di una fabbrica di aerei.
Percorrevano ogni giorno quattordici chilometri per andare e tornare da quella località. La fatica, la denutrizione e la tubercolosi, aprivano larghi vuoti nelle loro fila. Spesso in cucina riuscivamo a nascondere qualche patata cotta sotto la cenere, con grande rischio, perché se ci scoprivano venivamo picchiate e torturate. Man mano si avvicinava la fine della guerra, le patate andavano diminuendo e aumentavano le rape, grosse e legnose, valide nemmeno per gli animali. Kahla-Tur era una cittadina con una decina di lager di ogni tipo: vicino al nostro ce n’era uno di militari, alcuni di loro talvolta venivano nella nostra infermeria.
Fu così che conobbi un maestro e un soldato, rispettivamente di Mantova e di Brescia (Gheno Giovanni, di via Milano). Questi giovani avevano dei valori da difendere ed io mi sentivo unita a loro. Erano il ricordo dei miei fratelli. Con loro fu possibile stabilire un rapporto di fraternità, nel ricordo della nostra patria (talvolta riuscii a sfamare quello di Brescia).
La sola persona buona tra i sorveglianti era un maresciallo della Wehrmacht. Mi ammalai, come quasi tutti, di dissenteria, di sfinimento. La sola speranza che mi sorreggeva era il pensiero di poter tornare in Italia, per non far morire di dolore i miei genitori, ai quali scrivevo, dicendo di stare bene. Anche loro mi scrivevano, e leggevo “fratelli bene”, mentre Emi era stato ucciso il 10 febbraio ’45 e Federico mandato in Germania, a Mauthausen”.

Fonte: B. Franceschini, Dalle storie alle Storia, Grafo, Brescia 2007, p. 441

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