INVERARDI Fausto

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[…] Il trasporto alla volta del campo è stato fatto con un piccolo camion chiuso ed è durato due notti. Eravamo in dieci. Dopo essere stato messo per una settimana in quarantena, sono stato alloggiato in un capanno ed incatenato. Eravamo tre deportati per castello.
Il vitto veniva distribuito una volta al giorno, alla sera [e consisteva] in acqua con patate e un pezzo di pane nero e duro. Non c’erano appelli giornalieri mentre il lavoro andava dalle sette del mattino alle sette di sera e dalle sette di sera alle sette del mattino. Non mi ricordo di disinfezioni.
[Tra i ricoverati in infermeria non avvenivano delle selezioni]: venivano eliminati. Chi si ammalava era ucciso a legnate. [Ogni tanto ho subito delle punizioni: erano] legnate perché andavo in cerca di cibo. [Ci sono state delle esecuzioni capitali: erano] senza motivazione.
La liberazione del campo da parte degli americani, è avvenuta alla fine di aprile del 1945.
Non mi ricordo di rappresaglie contro i kapo.
Poi sono stato trasferito in un campo di smistamento che si trovava sulle sponde del Danubio. Sono trascorsi altri due mesi prima di rientrare in Italia su un camion privato, transitando da Merano.
Penso che la mia costituzione fisica [mi abbia molto aiutato nel sopportare le condizioni del campo.
L’impressione che mi sono portato dietro da quest’esperienza, è che è stata] tragica: sempre legnate.
[Il ricordo che mi è rimasto più impresso è questo]: nel campo di lavoro di Gusen spesso mi capitava di vedere dei compagni morti o quasi, per terra o nei gabinetti, e poi passavano i carri a raccoglierli e li portavano nei forni crematori di Mauthausen o Gusen”.

Fonte: Archivio Storico dell’ANED di Brescia, B. 9, fasc. 114 (“Elenchi dei deportati”), ad nomen.

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