DOSSI Giovanni Maria

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[…] Dopo aver trascorso quattro giorni su un carro merci, arriviamo al campo. Siamo messi in baracche con castelli ognuno dei quali è condiviso da due deportati. Ogni giorno ci viene distribuita una zuppa di rape, una razione di pane e poca margherina [sic].
Vengono effettuati due appelli al giorno: uno alla mattina e l’altro alla sera. I turni di lavoro cominciavano alle sette fino alle dodici e dalle tredici alle diciotto. Siamo stati sottoposti a disinfezioni [sic] per i pidocchi. Le guardie erano tutti SS. E ciò che ordinavano venivano tradotti da deportati. Mi sono ammalato dal dicembre del 1944 fino alla liberazione del campo.
Sono riuscito a stare in piedi verso marzo e ho dovuto fare il trasportatore di morti della mia baracca dove tutti i giorni ne moriva alcuno [sic]. Portavamo questi dalla nostra baracca in una specie di magazzino da dove venivano caricati e portati via nelle fosse. [Quando si era ammalati] si rimaneva in baracca e si prendeva solo mezza razione del vitto. [La malattia più frequente era il] deperimento organico. Gonfiori che portavano alla morte. Nel campo migliaia di internati hanno subito spesso bastonature inflitte con] nervi di bue.
[Non mi ricordo di episodi di solidarietà]. Solo con un amico Guinzani [Federico] dividevamo tutto e ci aiutavamo per riuscire a sopravvivere. Ma generalmente non c’era solidarietà.
[Ci furono delle evasioni ma quelli che ci provavano] venivano presi subito e inviati ad un campo apposito vicino a noi da dove non tornava nessuno.
L’evacuazione fu fatta quando stavano arrivando le truppe americane. Fummo trasferiti a piedi in un altro campo dove arrivammo il giorno dopo.
[Ci furono delle rappresaglie contro i kapo]: botte. Qualcuno [sic] kapo è morto.
[Dopo sono stato trasferito all’] ospedale di] Rudolstadt (Turingia). Dopo un mese sono rientrato in Italia dopo aver camminato fino a Innsbruck. Da lì al Brennero e poi a Verona.
[Ciò che mi ha aiutato di più a resistere sono state] la fortuna, l’età, la primavera e un clima sopportabile.
Non posso immaginare uomini più crudeli che usavano trattamenti da bestie inferocite.
[L’episodio che mi ricordo meglio è questo]: un giorno io e Guinzani ci siamo assentati dal lavoro – ingenuamente evasi – per andare nel paesino a caricare qualcosa da mangiare in casa di un contadino . Ci siamo presentati come francesi e ci hanno fatto lavorare tutto il giorno a raccogliere patate nei campi. Alla sera, tornati in baracca, sono venute due SS a prenderci e portati fuori e ci hanno dato tante botte che eravamo più morti che vivi, e ci hanno tolto la carta Essen con ancora tagliandi per quattro giorni. Per quattro giorni siamo vissuti di bucce di patate spigolate nelle immondizie fuori delle baracche dei Russi. Dopo quella punizione, una settimana dopo, mi sono ammalato e non ho più potuto lavorare: [sono stato] classificato malato di IV° categoria, la più alta”.

Fonte: Archivio Storico dell’ANED di Brescia, B. 9, fasc. 114 (“Elenchi dei deportati”), ad nomen.

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